V

IL PERIODO DEL «METODO STORICO»

Dopo il saggio desanctisiano, gli ultimi decenni del secolo e il primo inizio del Novecento non portarono gran luce al problema critico del Furioso ed anzi (mentre un approfondimento erudito e filologico poneva le basi necessarie per nuovi studi, bisognosi però di una coerente sicurezza di indirizzi estetici, di una capacità di utilizzare la strumentale offerta dell’erudizione e della filologia e non di considerare queste per se stesse come vera critica ed anzi superamento delle posizioni estetiche desanctisiane) la vera e propria critica si riduceva a riprese del formulismo romantico (satira della cavalleria, espressione della crisi del Rinascimento ecc.) privo del suo genuino afflato storico, ridotto in freddi schemi pseudoscientifici e sociologici in cui piattezza spirituale ed ottusità estetica si associano a pesanti elucubrazioni moralistiche e nazionalistiche.

Si pensi che persino le accuse del Nisiely sui morti risuscitati del Furioso vengono riprese in quel periodo di ottusità estetica e di unilaterale approfondimento filologico erudito (Borgognoni[1])! Mentre i pregiudizi romantici e specialmente quello nazionalistico ritornano appesantiti e senza la giustificazione risorgimentale (cosí nel Casella[2]), l’esigenza di sentire il poema nel suo tempo si riduce a ricerche con cui i filologi credevano di combattere «l’arte per l’arte» desanctisiana (cosí il Canello nella sua Storia letteraria del secolo XVI si pone la questione: «dato che l’Ariosto abbia contribuito con il suo poema al ristabilimento dell’impresa di Carlo V, l’influenza del suo poema sarebbe buona o cattiva?»[3]) e a ricerche di contenuti identificati ad esempio dallo stesso Canello nell’«amore, ma come elemento perturbatore, l’amore incestuoso di Orlando e Rinaldo per Angelica pagana e che mette in grave pericolo le sorti della Cristianità»[4].

E Rodolfo Renier, mentre tuonava contro l’adulazione e l’immoralità dell’Ariosto, riprendeva il giudizio desanctisiano della «obbiettività e impersonalità» e lo trasformava molto significativamente in un’esigenza di basso realismo, mostrandone l’equivoca direzione e conciliandolo con l’esigenza razionalistica che informerà tutta la ricerca del Rajna. «L’Ariosto ha una facoltà tutta sua, quella di trasfondere in tale guisa se medesimo nell’oggetto che prende a descrivere da sparire totalmente agli occhi del lettore»[5]. «Il Furioso risulta appunto dall’accoppiamento dell’elemento romanzesco e di quello classico, con un poco di fantasia, ma poco assai, introdottavi dall’autore, la cui immaginazione, al contrario di quanto si può giudicare a prima vista, non era certo delle piú feconde»[6].

Lo stesso intervento del Carducci (che pure portò contributi notevolissimi per lo studio della biografia e dell’attività ariostesca giovanile, per la storia della critica ariostesca[7]) si riduce effettivamente ad un’elegante e appassionata[8] variazione descrittiva (origine del Furioso, ambiente ferrarese, elaborazione del poema) in cui si può rilevare un tentativo poco efficace di combattere la tesi romantica dell’ironia («male fu scambiato per intenzionale ironia quel fino spirito del tempo nuovo che scherza luminoso e tranquillo fra i pennoni dei paladini e i veli delle dame del buon tempo antico»[9]), opponendo una ripresa della tesi cinquecentesca del piacevole raccontare[10] e una rivendicazione piuttosto convenzionale e retorica della serietà eroica e drammatica[11] dell’Ariosto.

Ma sono queste tuttavia le uniche indicazioni di una posizione critica di decoroso rilievo e di potenziale importanza (polemica con la tesi dell’ironia, attenzione alla compiuta opera artistica, con echi foscoliani, intenzione di maggior vicinanza al poeta che non al rappresentante di un momento storico), sulla via di uno sviluppo postdesanctisiano che riprenderà a svolgersi davvero con il Croce e i critici del Novecento.

Siamo nell’epoca in cui il rettore dell’Università di Ferrara, nel 1874, durante le celebrazioni del centenario ariostesco, si augurava un esame non solo del genio del poeta, ma del suo cranio! E se all’Ariosto furono risparmiate le dubbie cure prodigate da medici-letterati al Leopardi o al Tasso, tale direzione affiora persino nel saggio del Cesareo che pure citeremo come reazione al positivismo erudito. E il Furioso veniva nuovamente rinchiuso nel letto procusteo del romanzo epico e cavalleresco, la sua vita poetica veniva ridotta alla funzione di anello nello svolgimento del presunto soggetto della storia letteraria: il genere. Entro questo schema quanto mai angusto (era reazione alla piú generica storia romantica e mimesi di procedimenti scientifici) e con un senso mediocrissimo del valore poetico, il metodo «storico», che d’altra parte tanto fece per gli studi ariosteschi quanto a ricerche biografiche, a preparazione filologica per i testi[12], si rivolse quasi esclusivamente ad un problema (le fonti) che poteva, con diversa mentalità critica e diverso senso della sua funzione, vivere nel problema piú vasto ed importante della cultura dell’Ariosto, della sua formazione letteraria ed artistica. In realtà le idee che sorressero questo lavoro (Rajna, D’Ovidio, Romizi ecc.), nel generale limite del genere letterario, furono tali da indebolire il lato piú serio di quelle ricerche, da ridurre un problema di cultura letteraria e di formazione artistica alle proporzioni di una istruttoria giudiziaria o di una ricerca di classificazione botanica.

Basti ricordare le conclusioni cui giungeva la celebre opera di Pio Rajna Le fonti dell’Orlando Furioso[13]: inferiorità del Furioso rispetto all’Innamorato considerato culmine del puro genere cavalleresco[14], scarsa capacità d’invenzione e prevalenza di «ragione» nell’Ariosto: «Anziché un poeta per eccellenza fantastico, l’Ariosto è un poeta per eccellenza osservatore e ragionatore»[15].

Considerando la poesia come individuazione di un genere e di una specie di ispirazione piú che individuale, era logico il problema del debito di un poeta e del suo contributo particolare al perfezionamento del genere. Già nel Cinquecento il Lavezuola, il Pigna, il Fornari, il Da Longiano avevano trovato luoghi imitati nel Furioso, e il Nisiely aveva concluso addirittura per il plagio («aperto usurpatore delle cose altrui») e il Panizzi e il Bolza nell’Ottocento avevano ripreso il problema. Ma solo con il Rajna tutto viene considerato con l’occhio del genealogista che, pur riconoscendo una distinzione fra arte e invenzione e legando la seconda alla storia evolutiva che lo interessa («l’invenzione: per conseguenza furono lasciate in disparte, o poco manca, le imitazioni di versi, di immagini, di similitudini che non importassero al concetto»[16]), mette in primo piano l’importanza del genere riducendo l’arte ad una decorazione cui solo per dovere si rende un omaggio convenzionale.

Certo, l’arte del Furioso non è negata, anzi ammessa quasi senza discrimine, e può quasi sembrare che nel Rajna non manchi la coscienza almeno del piano subordinato su cui si muove il suo lavoro[17], ma, alla conclusione, la scarsezza di invenzione viene denunciata come essenziale limite alla grandezza della poesia ariostesca: «Per il merito di uno scrittore non è nient’affatto indifferente, secondo me, che abbia trovato egli stesso o che abbia preso da altri la sua materia»[18].

Qui il Rajna era veramente sincero ed esprimeva il fondo della fede del «metodo storico», mentre il Carducci, che pure aveva lodato il libro del Rajna, distingueva:

Ma dopo tante ricognizioni e rivendicazioni, la parte che rimane all’invenzione dell’Ariosto è pur sempre grande, e ciò che egli prese da altri o conserva dalla leggenda comune ad opere d’arte individuali egli lo ha cosí trasformato sotto il fuoco del suo ingegno e nel crogiuolo dell’arte sua, che a distinguerlo ci vuole il piú delle volte un vero lavoro di critica chimica. Questione del resto che importa assai piú alla storia della letteratura che a quella dell’arte[19].

E il Cesareo, reagendo alla seconda edizione delle Fonti, scriveva, in un articolo intitolato polemicamente La fantasia dell’Ariosto[20], «che l’invenzione in arte non conta e conta invece la fantasia, che il Boiardo cosí ricco d’invenzione, fu un meschino poeta, perché ebbe povera la fantasia, che l’Ariosto, cosí spensierato dell’invenzione, è un poeta magnifico, perché la sua fantasia è tra le piú prodigiose che siano mai esistite»[21], e accusava il Rajna di non aver tenuto conto della trasposizione in arte di pura materia letteraria, di aver voluto riportare ogni minima immaginazione e vicenda ariostesca ad un modello letterario anche là dove poteva naturalmente sgorgare da un semplice sguardo sulla «realtà».

Reazione giustissima, anche se poi la dimostrazione della fantasia ariostesca naufraga in una sterile caratterizzazione dei personaggi con meschine concessioni alle ricerche degli psichiatri fino a spiegare la «pazzia d’Orlando» con una diagnosi attinta a scienziati del tempo («Orlando si trova nell’età piú propizia alla follia, l’età della turgescenza fisiologica del cervello e delle piú acute sovreccitazioni. D’altra parte in lui, uomo d’arme, lo sviluppo della psicosi è agevolato dalle continue fatiche ecc.»[22]), e a fare perno nelle ottave piú complicate e concettistiche sulla Grübelsucht o mania della sottigliezza.

Ma la reazione del Cesareo e la piú decisa squalifica crociana di tutta la problematica del metodo erudito (fonti, generi, paralleli ecc.) non tolgono che gli studi del Rajna, del Romizi e persino quelli piú poveri e rozzi come quello di Guido Maruffi[23], o quelli che si limitano ad alcune indicazioni come quello dello Zumbini[24] che ritrova Erasmo da Rotterdam con il suo Elogio della pazzia nell’episodio tanto tormentato del vallone della luna, rispondessero ad una esigenza seria anche se equivoca nella sua impostazione positivistica.

Certo le conclusioni del Rajna sono, come si è visto, addirittura sconcertanti, e il metodo con cui egli presenta e organizza le sue scoperte è ugualmente assurdo, come quando per mostrare la genesi dell’episodio di Sacripante piangente sulla riva del fiume elenca e suddivide, come se si trattasse di una famiglia di codici, dodici esempi di simili scene di romanzi cavallereschi, risalendo, per aggregazione di elementi comuni, per somma di particolari al «fatto» liricizzato nel Furioso[25], o quando ricostruisce la figurina dell’ippogrifo attraverso la paziente ripresa di modelli precedenti, Rabicano e Baiardo[26]. E tuttavia in simili lavori (fra i quali quello del Rajna si eleva per vastità di ricerca, ma non certo per una chiara idea conduttrice) è implicita un’esigenza valida per una critica piú sicura e consapevole del valore strumentale di certi studi, l’esigenza di una storicizzazione dell’Orlando Furioso non solo in relazione ad una interpretazione del suo tempo (lezione essenziale del Romanticismo, anche se diretta ad un servizio inaccettabile di tesi filosofiche e prammatiche), ma insieme, e piú intimamente, in relazione ad uno studio della cultura letteraria, della poetica, del linguaggio poetico con cui il poeta ha fatto i suoi conti, di cui ha sentito e utilizzato stimoli e suggestioni in un complesso lavoro di formazione e di precisazione del proprio fantasma poetico[27]. Non piú certo la ridicola ricerca dei «debiti», delle «fonti» nel senso materiale, positivistico della parola (con la ingenua prospettiva di una automatica trasformazione di un «genere» come di una famiglia o di una razza, e di una assoluta presenza di tutti i romanzi cavallereschi alla lettura, alla utilizzazione dell’Ariosto) né le ricerche di paragoni e paralleli di un ingenuo comparativismo, ma studio della tradizione letteraria, delle possibili «letture» dell’Ariosto per meglio comprendere la sua scelta, la sua poetica, e la stessa originalità del suo linguaggio poetico nella continuazione e nel rinnovamento di quello degli scrittori da lui considerati nella linea del suo interesse letterario. Cosí si dovrebbe calcolare la particolare suggestione del mondo medievale romanzo risentita nelle concrete offerte dei romanzi cavallereschi, nell’incontro con il mondo poetico e la scuola di limpidezza formale dei classici e nella relazione piú vicina con Poliziano e Boiardo, con il petrarchismo bembistico, e un realismo comico mediato nei toni particolari delle Liriche, delle Satire, delle Commedie e adibiti funzionalmente nella complessità mirabile del poema. E naturalmente, senza perdere il senso del tempo cosí forte nel poema (non un generico Rinascimento, ma quel Rinascimento in cui concretamente l’Ariosto si formò e si svolse), e mantenendo il primum ideale all’ispirazione originale del poeta, che nella storia (storia generale e storia letteraria) si è precisata e si è attuata attraverso un contatto ed un calcolo assiduo, in una solitudine gremita di suggestioni, di stimoli, di presenze da trasformare in immagini ed in ritmo. Studi in cui lo scopo viene capovolto rispetto a quello del periodo positivistico: storicizzare per rilevare l’originalità, lo spicco personale, la statura del poeta, non per disperdere la poesia in frammenti di «invenzione», in un giuoco da mosaico degno di un’epoca onesta e laboriosa (ed in tal senso capace di lezione e di avvertimento), ma chiusa alla poesia, che per contrasto si fece proprio allora scioccamente superba di una propria preminenza su di ogni altro valore nell’estetismo senza storia e senza pensiero.

Ma l’ultimo Ottocento e il primo Novecento, nel loro reagire alla storicizzazione tendenziosa del Romanticismo, non seppero – mancando del senso della poesia e di ogni vera attenzione ai fatti artistici nelle loro specifiche qualità – attuare una storicizzazione piú aderente e piú coerentemente letteraria, come tanto meno poterono, al di là del De Sanctis, avvicinarsi di nuovo e con maggiore intensità di contatto al poema nella sua concreta realtà artistica[28].

Toccò al Croce il compito di riprendere le posizioni desanctisiane e farne il punto di partenza di una nuova fase della critica ariostesca, puntando con maggior decisione sulla individuale originalità del poeta e sulla serietà e solidità del suo mondo poetico che, malgrado i ricchi spunti desanctisiani anche in questa direzione, veniva messo in pericolo dalla formula dell’arte per l’arte e dell’impersonalità.


1 A. Borgognoni in «Rassegna settimanale», 19 dicembre 1880.

2 G. Casella, Il patriottismo dell’Ariosto, in Opere edite e postume, Firenze, Barbèra, 1884, vol. II, pp. 344-349. Una ripresa moderna di questa antistorica ricerca è nell’articolo di V. Cian, Ludovico Ariosto meno conosciuto, «Nuova Antologia», 1933.

3 U.A. Canello, Storia letteraria del secolo XVI, Milano, Vallardi, 1880, p. 124.

4 Ivi, p. 111.

5 R. Renier, Il realismo nella letteratura italiana, «Rivista europea», IV, p. 144.

6 R. Renier, Ariosto e Cervantes, Studio, «Rivista europea», VIII, p. 436.

7 G. Carducci, L’Ariosto e le sue due prime commedie, in Opere, ed. naz., Bologna, Zanichelli, 1936, vol. XIV; L’Ariosto e il Voltaire, ibidem; La gioventú di Ludovico Ariosto e la poesia latina in Ferrara, in Opere, ed. naz. cit., vol. XIII.

8 L’amore e la simpatia del Carducci per l’Ariosto (rinascimentale ed antiascetico) sono ben documentati nel noto sonetto Dietro un ritratto dell’Ariosto (Rime nuove).

9 Saggio sull’Orlando Furioso, in Opere, ed. naz. cit., vol. XIV, p. 87.

10 «Ma la finalità del poema romanzesco è in se stesso, è, come scriveva l’Ariosto al doge di Venezia, nel raccontar piacevole a ricreazione delle persone d’animo gentile» (Saggio sull’Orlando Furioso cit., p. 86).

11 Saggio sull’Orlando Furioso cit., pp. 88-89.

12 Non importa se poi la sintesi e il compimento di tali fatiche fu soprattutto opera di studiosi del Novecento come, per le biografie, la Vita di Ludovico Ariosto di M. Catalano (Genève, Olschki, 1931) e, per le edizioni critiche, quella del Furioso di S. Debenedetti (Bari, Laterza, 1928), quella delle Commedie di M. Catalano (Bologna, Zanichelli, 1933), quella della Lirica di G. Fatini (Bari, Laterza, 1924), dei Carmina di E. Bolaffi (Modena, Società tipografica modenese, 1938).

13 Prima edizione: Firenze, Sansoni, 1876; seconda accresciuta: Firenze, Sansoni, 1900. Cito naturalmente da questa.

14 «Il romanzo cavalleresco mi diventa quasi un essere vivente, di cui ho da studiare e rappresentare le graduali evoluzioni, che devo prendere in lontane regioni della Francia per accompagnarlo fino a Ferrara» (ivi, p. 3). Partendo da tali premesse è giusto considerare «il massimo della ingiustizia il disconoscere che là dove il Boiardo si fa innanzi come riformatore e creatore, l’Ariosto è solo continuatore dell’opera altrui» (ivi, p. 31). E poi: «Insomma secondo il mio povero giudizio, il culmine vero nella storia del romanzo cavalleresco italiano è rappresentato dal primo anziché dal secondo Orlando. Col poema del Conte di Scandiano ha termine lo svolgimento naturale e spontaneo del genere. Col Furioso, nato da padre italiano, ma di madre latina, incomincia nella stirpe un altro ramo, che se riconosce ancora tra i suoi antenati la Chanson de Roland e il Roman de Tristan, deriva per altro buona parte del suo sangue dall’Eneide, dalle Metamorfosi, dalla Tebaide» (ivi, p. 35).

15 Ivi, p. 531.

16 Ivi, Introduzione, p. XI.

17 Ivi, p. 610: «Se i sommi sono tali anche senza aver inventato gran cosa, gli è che posseggono in sommo grado altre doti, altrettante e piú preziose, che quella d’immaginare una favola».

18 Ivi, p. 529.

19 G. Carducci, Su l’Orlando Furioso, in Opere, ed. naz. cit., vol. XIV, pp. 90-91.

20 G.A. Cesareo, La fantasia dell’Ariosto, «Nuova Antologia», 16 novembre 1900.

21 Ivi, p. 281.

22 Ivi, p. 296.

23 G. Maruffi, La Divina Commedia considerata quale fonte dell’Orlando Furioso e della Gerusalemme liberata, Napoli, Pierro, 1903.

24 B. Zumbini, La follia d’Orlando, in Studi di letteratura italiana (1894), Firenze, Le Monnier, 19062. L’indicazione dello Zumbini (desanctisiano con esigenze erudite) è del resto assai cauta e misurata.

25 P. Rajna, Le fonti dell’Orlando Furioso cit., pp. 67 ss.

26 Ivi, p. 102. E si noti come nello studio del Rajna agisse ancora il mito di origine romantica, del «popolo» anonimo creatore di poesia.

27 Un tentativo di storicizzazione piú limitata e legittima, a distanza di anni dallo studio del Rajna, fu attuato da Giulio Bertoni nel suo libro La Rinascenza a Ferrara e l’Orlando Furioso, Modena, Orlandini, 1919. Era un tentativo di localizzazione precisa del milieu ariostesco (adopero in questo caso la parola ancora con forte residuo tainiano) e di storicizzazione un po’ esterna e sociologica del problema dell’Orlando, visto come rappresentazione poetica di un preciso incontro, di ideali, di suggestioni, di tradizione letteraria (un po’ sulle tracce del celebre studio carducciano sulla gioventú dell’Ariosto), e con l’intenzione plausibile di usufruire delle ricerche rajniane ritagliando un limitato e sicuro cerchio di cultura e di esperienza ariostesca. Non il Rinascimento in generale, ma il particolare Rinascimento ferrarese, non i romanzi cavallereschi in genere, ma quelli posseduti dalla biblioteca degli Estensi e diffusi nell’ambiente colto ferrarese. Risultati laterali sono subito afferrabili: corrispondenza fra l’Ariosto e il suo pubblico, e, piú in profondo, estrema contemporaneità e storicità del Furioso che poeticizza il costume e le aspirazioni del secolo e in particolare della cultura ferrarese, e che risente la suggestione delle preferenze essenziali di quella cultura: classici e poesia cavalleresca francese e spagnola. Ma anche il Bertoni, suggestionato in parte dal Rajna (a cui il volume è dedicato), limita troppo il suo esame a quello che il Rajna chiamava «invenzione», pur avendo chiara da una parte la natura tutta creativa dell’Orlando («E se per cosí fatta creazione non è proprio necessaria a un poeta una grande dose d’invenzione, indispensabile gli è, senza fallo, una fantasia calda e potente, che rielabori la materia e la riesprima con l’impronta netta e precisa della personalità dell’autore», p. 89) e dall’altra il bisogno di accertare non i debiti, ma la cultura ariostesca. Mancò al Bertoni, che fra l’altro ondeggiava fra positivismo erudito e un vago entusiasmo estetico, la forza di approfondire la ricerca piú nel senso della poetica ariostesca che in quello del costume cinquecentesco ferrarese, e in senso piú storico che cronachistico. E tutto il libro, specie nelle parti riguardanti la società ferrarese, gli amici dell’Ariosto ecc., rimane soprattutto un utile sfondo per il poema, ed anche in questa direzione una curiosità storica piú forte poteva dare assai di piú sull’incontro di tipo huizinghiano di idealismo cavalleresco e neoplatonico, di rudezza di origine feudale e di realismo rinascimentale. Nel libro del Bertoni vi è anche un accenno a collegare il Furioso con le arti figurative. Recentemente E. Vittorini in un’edizione del Furioso (Torino, Einaudi, 1950) ha voluto indicare con la riproduzione di quadri prevalentemente della scuola ferrarese una relazione fra il poema e la civiltà figurativa contemporanea. Alle possibili conclusioni di una vera vicinanza di ispirazione hanno reagito con avvertimenti di giusta cautela E. Cecchi (in «L’Europeo», 14 gennaio 1951) e G. De Robertis (in «Il Tempo», 1950).

28 In tal senso è giusto dire (pur calcolando l’utilità di indicazione degli studi di fonti) con il Natali (Un po’ di storia della critica ariostesca cit., p. 496) che «dopo il De Sanctis, fecero progressi gli studi ariosteschi non già la critica ariostesca». Solo che il Natali estende poi ingiustamente tale giudizio anche al Croce che «questa volta cosí poco chiaro e cosí poco preciso, ci lascia insoddisfatti».